5 dischi capolavori di musica alternativa

Un lettore del blog mi ha richiesto un consiglio musicale, qualche disco di musica non commerciale (alternativa), grande musica con cui possa passare l’estate in compagnia. Ecco percui 5 opere a cui sono molto legato, 5 opere poetiche, 5 capolavori assoluti, ma anche 5 guppi o artisti dotati della rara capacità di descrivere la realtà odierna, nota fondamentale per me è la capacità di fondere musica classica con rock e sperimentazioni elettroniche.

Patrick Wolf è il genio e sregolatezza che ho apprezzato dai tempi di Lycanthropy, tutti concordano che il suo capolavoro sia The bachelor, ma io consiglio Wind on the wires almeno come primo approccio. Per i Radiohead ho scelto In Rainbow ma con il genio di Yorke e soci si andrebbe sul sicuro con qualsiasi disco da Ok Computer, Kid A, Amnesiac o Hail to the Thie. I Sigur Ros dei capolavori brumosi Agætis Byrjun e ( ) danno il loro meglio nella raccolta Hvart/Heim dove reinterpretano con mirabile risultato canzoni già rilasciate e alcuni inediti. The Swell Season è l’opera che Glen Hansard (leader dei Frames che qui ripone le strumentazioni elettriche ed elettroniche) e Markéta Irglová hanno composto fondendo l’anima rock di lui e quella classica di lei. Il tutto porterà alla realizzazione del film Once e della vittoria di un oscar come migliore colonna sonora. The light the dead sea è il mirabilante disco che fonde l’anima dark di Dave Gahan con quella soul rock dei Soulsaver un ambizioso progetto inglese che avrà sicuramente un seguito.

Patrick Wolf
Wind on the wires
Inglese, polistrumentista, Wolf incarna la figura dell’enfant prodige delle tensioni pop di prossima generazione. L’archetipo del dandy moderno ebbro di letture classiche si paventa da subito in “The Libertine”, il cui incipit dedicato all’accoppiata pianoforte/archi viene presto fagocitato da un’incalzante, orecchiabile recitazione, che esaurisce la sua enfasi solo sfumando nel quieto dondolìo di viola di “Teignmouth“, sogno a occhi aperti di irrinunciabile pathos.  Forte è il contrasto fra melodie acustiche e sezione ritmica elettronica, in un incontro fra opposti che va a bilanciare il lirismo dolente di una voce sulla cui padronanza Wolf ha oggi pochi eguali: con un’interpretazione più defilata sarebbe impossibile rendere convincenti passaggi decisivi come la title track, così come toccante la ninna nanna folk “The Railwayhouse“, o tanto nostalgica la formidabile ballata “The Gipsy King“; “Ghost Song” è un sentito elogio a indolenti crepuscoli, così mirabilmente anticipato dagli archi oscuri e classicheggianti di “Apparition“, autentico film muto anni 20 trascritto in note da un minuto e venti secondi.

Radiohead
In Rainbow
Con in Rainbow i Radiohead tornano a canzoni con tanti arrangiamenti e una produzione molto curata. Canzoni che possono essere sia squisitamente pop (“Faust Arp“), sia intrise di quelle chitarre rock di cui erano pieni i primi dischi del gruppo, ma sempre con il tocco di zenzero in più di quella maturità che conferisce a Yorke e compagni il sapere quando mettere il dettaglio sonoro giusto al posto giusto. Processo comune a tutti i grandi artisti e che spesso ha bisogno di qualche tentativo sbagliato per perfezionarsi (e la mente pensa subito al pianoforte desolato di quella “We Suck Young Blood” del precedente album). Ci sono almeno tre canzoni bellissime in questo disco, degne di quelli che furono i Radiohead negli anni 90 e che tuttavia quel gruppo non avrebbe mai scritto, per caratteristiche differenti: “Nude“, “All I Need” e “House Of Cards“. Yorke, che la sa lunga, le distribuisce sapientemente nella scaletta e, soprattutto, le canta divinamente. Vale la pena di spendere due parole sulla terza, una romantica bossanova registrata in lo-fi con una chitarra reggae. È la nota stonata eppure geniale, la “Life In A Glasshouse” di quest’album.

Sigur Ros
Hvart/Heim
Delle due parti del lavoro, la prima, “Hvarf”, comprende cinque brani “elettrici” registrati in studio, tre dei quali inediti: fin dal primo, “Salka” (outtake da “( )”, sovente eseguita dal vivo), i Sigur Rós perpetuano la magia della loro musica, dischiudendo di nuovo il loro mondo onirico di luci fioche e foschie impalpabili, mirabilmente descritto da un fluido tappeto di suoni arrotondati, sui quali la voce di Jónsi Birgisson scorre placida come non mai, esprimendo emozioni che non richiedono di essere urlate, tanto da poter fare quasi a meno dei crescendo elettrici, poiché con la loro toccante dolcezza sono in grado di trasportare semplicemente in un’altra dimensione. Seguono gli altri due inediti, canzoni “classicamente Sigur Rós” composte a cavallo del 2000, che disegnano altalene emotive, sapientemente filtrate dalle chitarre e dagli arabeschi vocali del singolo “Hljómalind” o dai ripetuti cambi di ritmo di “Í Gær“, sospesa tra leggiadre danze di xilofono e impennate chitarristiche dall’inconsueto sapore psych-prog, ben lontano dalle torsioni post-rock di “Ágætis Byrjun” e “( )“.

Glen Hansard e Markéta Irglová
The Swell Season
È sufficiente l’ascolto dell’iniziale “This Low” per restare letteralmente incantati di fronte alla dolcezza pregna di sentimento di ballate dalle strutture essenziali, alle quali la peculiare veste sonora conferisce una grazia discreta, eppure non priva di crescendo emotivi sapientemente calibrati nell’interazione tra l’anima più propriamente orchestrale e quella folk-cantautorale, tra i campestri paesaggi irlandesi di Hansard e le latenti fascinazioni mitteleuropee evidenziate qua e là da calde note di violino (“The Swell Season“) o dal pianoforte della Irglova che in “When Your Mind’s Made Up” abbandona per un attimo la sua compunzione classica in favore di uno spedito ritmo folk. Mentre il romanticismo a profusione e l’atmosfera notturna di “This Low“, con i suoi tocchi di chitarra acustica, supportati da pianoforte e violino, si aprono alla luce evocata dal finale del brano, le tracce successive sembrano una sveglia graduale e delicata dal sogno iniziale: così, “Sleeping?” arricchisce le tenere componenti cameristiche del suono con toni via via più sofferti e il pianoforte di “Falling Slowly” accompagna l’interpretazione struggente di un amore splendido quanto tormentato. Proprio il cantato suadente di Hansard cresce d’intensità nel corso dell’album, passando per il ritmo sostenuto di “When Your Mind’s Made Up“, fino a esplodere in un’enfasi di disperazione in “Leave“, il cui finale commosso e quasi urlato.

Soulsavers
The light the dead sea
La sfida di rendere un disco dichiaratamente dark soul  è presto vinta, la tracklist composta da dodici takes si affida totalmente alla suadente ed emozionante voce di Dave Gahan (Depeche mode), la musica è curata al minimo dettaglio, un vero mosaico di gamme strumentali che colpisce per dovizia di particolari, il tutto nella tradizione dei Soulsavers, una miriade di luci e ombre, vibrazioni e gradazioni armoniche per pianoforte, corde, organo, flauto, sax, basso, batteria etc. I Soulsavers con Gahan regalano una prova discografica impregnatissima di gospel remissivo e nebulose sinfoniche di rispetto e per un ascolto accomodante, barocco, oscuro; il trionfo di spiritualità (Presence of God), il blues di polvere e animo scardinato (Gone too far), l’armonia a cuore sanguinante d’amore (Tonight”, “Bittereman) e la pastorale folk-gospel che esalta Longest day,  trascinano l’andare del disco creando atmosfere e sensazioni difficilmente riscontrabili altrove.

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