La magnifica illusione

La magnifica illusione di Antonio Monda, Fazi
Dopo la velocissima lettura del saggio Il paradiso dei lettori innamorati (Mondadori) prosegue la mia lettura sul cinema seguendo il percorso tracciato con sempre grande competenza da Antonio Monda. E’ veramente raro imbattersi in un volume di saggistica cinematografica come La magnifica illusione. Lo è perché difficilmente si riesce a scrivere o a parlare del cinema prodotto a Hollywood senza scadere né nel risentimento per l’ampio successo in termini di incassi e visibilità di questo né, all’opposto, nell’accusa di propaganda commerciale verso una forma di produzione artistica che non pare proprio averne ulteriore bisogno. È ancora più raro, inoltre, scrivere di Hollywood e del suo cinema in una maniera così “purista” da parte di un uomo che quel cinema lo ha vissuto in prima linea, e il cui curriculum, per così dire, parla da sé. Antonio Monda è difatti uno dei massimi esperti italiani del cinema americano, docente di regia cinematografica alla New York University, organizzatore di festival e retrospettive cinematografiche di grandissimo prestigio all’interno del jet-set della Grande Mela (spesso e volentieri a favore della divulgazione delle migliori firme del cinema italiano in territorio statunitense), e, soprattutto, amico o conoscente di (quasi?) tutti quelli che contano oggi giorno in Hollywood.

Tornando al libro in esame, la tesi di fondo che esso veicola è sintetizzabile in poche parole: la convivenza di arte e industria nel cinema a stelle e strisce è felice e feconda, in miracoloso equilibrio tra le ragioni degli autori e quelle del botteghino. E’ per questo che il Nostro evita accuratamente da una parte di demonizzare gli Studios, dall’altra di mitizzare la purezza degli indipendenti e – coerentemente – ritiene pure Steven Spielberg “l’unico regista di questo periodo per cui il termine ‘genio’ non è usato a sproposito”

La magnifica illusione prende l’abbrivio con una premessa di tre pagine, in cui l’autore pone in rilievo un’opera dimenticata dalla discutibile distribuzione italiana quale L’urlo e la furia, documentario in passato candidato agli Oscar di categoria.
Fa seguito l’Introduzione-Un viaggio, in cui Monda spiega molto bene il senso di questo libro. Alla domanda “È possibile essere un artista lavorando all’interno di un’industria regolata dalla logica del profitto?“, egli risponde affermativamente, aggiungendo che “ancora manca uno sguardo sereno su un cinema a cui non viene perdonato il successo come a una bella donna non viene perdonata l’avvenenza”, ricollegandoci allo spunto iniziale del nostro discorso.
Inoltre, Monda individua anche i migliori registi della nuova generazione americana in (oltre Quentin Tarantino): Paul Thomas Anderson, James Gray, Wes Anderson, Spike Jonze, David O. Russell, Richard Linklater, Neil LaBute, Sofia Coppola, Todd Solondz, Terry Zwigoff, Kenneth Lonergan, ma anche Whit Stillman e l’inglese Sam Mendes, Christopher Nolan.
Poi ci regala una chicca critica su Woody Allen e il suo rapporto con la propria città: “La New York di Woody Allen è l’isola che non c’è nella quale vivono tutti i romantici: un luogo reale e nello stesso tempo inesistente nel quale si sconta il male di vivere, ma si può ancora sognare“. Dopodiché, La magnifica illusione si divide, prima del gran finale, in 5 parti:
La materia di cui sono fatti i sogni (le leggi, poco artistiche, di Hollywood), Breve viaggio nei generi (vecchi e nuovi tópoi americani), Religione e letteratura: in principio era il verbo (New Age, Spielberg, Gibson e il fenomeno Da Vinci), Breve viaggio in una società che cambia (analisi di una società a trecentosessanta gradi per mezzo dello specchio cinematografico), Autori nell’industria (Coppola, ancora Spielberg e Woody Allen i più celebrati della sezione).
Il succitato gran finale consiste in una lunga e sostanziosa parte (Incontri ravvicinati) in cui Antonio Monda è alle prese con intervistati di massimo livello (la lista è davvero lunga; comunque ci sono i vari Lynch, Coen, Lee, Scorsese, Moore e Tarantino tra gli altri), in cui prendono vita diverse riflessioni capaci di immortalare degnamente l’unicità e l’eccezionalità dell’incontro, almeno dal punto di vista dell’autore. Il pregio principale di La magnifica illusione sta nella sensazione di “cronaca sul campo” che il lettore percepisce, tra slanci entusiastici e severi appunti di gusto dell’autore, la cui immagine restituitaci è quella di un critico fieramente innamorato del proprio oggetto di studio (Hollywood e il suo cinema, ovviamente), vittima e allo stesso tempo felice consumatore del fascino emesso dalla più grande, potente e famosa macchina dei sogni mondiale.

Un brano del libro:

L’estratto che segue è tratto dal capitolo dedicato a “La logica degli oscar”.
In una festa di capodanno di una decina di anni fa, alla quale ho avuto il piacere di partecipare, Maureen Stapleton raccontava con entusiasmo e autoironia quanto fosse cambiata la sua vita professionale da quando Hollywood aveva deciso di onorarla con l’Oscar. Eli Wallach e Ann Jackson, padroni di casa, sorridevano con l’affetto e la leggerezza di chi non e’ mai entrato realmente in competizione, e il loro atteggiamento contrastava in maniera trasparente con il silenzio di Paul Newmann, all’epoca ancora trascurato da Hollywood, e di Elia Kazan, pluripremiato tra il ’50 e il ’60 e poi ignorato per oltre un ventennio. Con il sorriso irruente della Emma Goldmann del grande schermo, la Stapleton non si vergognava di raccontare quanto fosse aumentato il suo compenso dopo il premio ricevuto per Reds, e come il suo nome fosse diventato familiare anche ai produttori della Hollywood più imberbe e presuntuosa. Era passato poco tempo da quando la United Artists aveva alzato bandiera bianca di fronte ai debiti causati da quel controverso capolavoro che era I cancelli del cielo di Michael Cimino, ma, nonostante si fosse al termine di un decennio economicamente non esaltante, la salute delle major era ancora robusta: Matsushita non aveva ancora inglobato la Universal, la Sony non disponeva della Columbia, e alla Metro Goldwyn Mayer in pochi sapevano chi fosse Giancarlo Parretti. Era una Hollywood saldamente nelle mani dei mogul americani, che sottovalutava la possibilità della conquista commerciale da parte di finanzieri orientali, e che portava con sé solo in nuce i sintomi di quel vuoto morale e culturale che pervade The player – I protagonisti di Robert Altman, il film che ha saputo raccontare meglio, e con l’intelligenza dell’ironia, il dorato e spietato squallore della odierna fabbrica dei sogni. Era una Hollywood che aveva intuito che per vincere la guerra con la concorrenza televisiva bisognava produrre film spettacolari o comunque fruibili nella loro totalità solo sul grande schermo; ed era, soprattutto, una Hollywood che aveva capito la fondamentale importanza del Mito dell’industria dello spettacolo, e della necessità di celebrarlo continuamente e con sfarzo sempre maggiore.

Lascia un commento