Tu non sei un gadget

Se lo guardi in foto, con i suoi dreadlock, ti sembra un hippie di cinquant’anni e invece Jaron Lanier appartiene alla ristretta cerchia dei lungimiranti pionieri della Silicon Valley che si formò negli anni Ottanta. Tra i primi a predire i rivoluzionari cambiamenti che il Web avrebbe apportato al mondo dell’economia e della cultura, oggi, a vent’anni dalla creazione della Rete, offre una lettura stimolante del modo in cui Internet pervade e condiziona le nostre esistenze.
Geek e tecnologo come pochi altri, negli anni ottanta faceva parte di un allegra banda di idealisti che comprendeva Richard Stallman(hacker, leader dei movimenti per il software libero), John Perry Barlow (co fondatore della Electronic Frontier Foundation) e Kevin Kelly (creatore e direttore di Wired).

Di recente Mondadori ha pubblicato il suo pamphlet-bomba contro i cantori dell’egualitarismo del web: Tu non sei un gadget(Mondadori). Un manifesto di un nuovo umanesimo digitale, un violento atto di accusa contro i social network, colpevoli di ridurre i singoli a gadget manipolabili da un pervasivo e soffocante totalitarismo cibernetico.

Ho comprato, letto e meditato questo libro che è vicino al mio modo di vedere la rivoluzione digitale, “persone, entità rarissime, le parole di questo libro sono state scritte per le persone, non per i computer. Quello che voglio dire è questo: prima di condividere voi stessi, dovete fare in modo di essere qualcuno.”

Due sono le obiezioni più grosse mosse da Lanier alla cultura del web sociale: è incapace di produrre vera innovazione, limitandosi ad una operazione di monotono riciclo e ricombinazione di vecchi contenuti che Lanier definisce, polemicamente, «poltiglia». Inoltre, mentre siti come Facebook attuerebbero una specie di formattazione dell’identità riducendo l’amicizia ad una accumulazione di contatti personali, altri protocolli, quale per esempio i commenti anonimi aggiunti in margine ai blog e piattaforme come YouTube, incoraggerebbero comportamenti antisociali.

Proviamo a immaginare che gli esseri umani smettano di usare la tecnologia piegandola ai propri scopi, per lasciare che sia la tecnologia a plasmare le loro vite: che cosa accadrebbe?
Il Web e le sue applicazioni sono ormai così familiari che è facile non vedere come di fatto essi si stiano sviluppando in direzioni imprevedibili rispetto al progetto originario. Grazie a un metodo d’indagine coerente e rigoroso e al suo talento eclettico, Lanier analizza gli aspetti tecnici e culturali, l’impatto sociale e le distorsioni ideologiche di un universo digitale contraddittorio e ci mette in guardia contro le aberrazioni di un sistema condizionato dai mercati finanziari e da siti che troppo spesso privilegiano la “saggezza della folla” e gli algoritmi informatici a danno dell’intelligenza e della capacità di giudizio delle singole persone, mettendo in serio pericolo la creatività intellettuale, lo spirito critico e la stessa idea di sapere.

Intervista da wired:

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Hai inventato il termine realtà virtuale, sei uno dei filosofi-scienzati più famosi del mondo, e la cosa bella è che non hai un titolo di studi accademico.

“Eheh, sì. In effetti ho avuto una vita abbastanza particolare. Sono cresciuto in una famiglia molto povera e segnata dalla morte di mia madre, e ho dovuto trovare una strada tutta mia per dare un senso alla vita. Diciamo che non ho scelto da solo questo percorso, mi ci sono trovato in mezzo.

Lo sottolineo perché sono un po’ preoccupato del fatto che i giovani sentano la mia storia e pensino: okay, se per lui è andata così allora anch’io mollo gli studi, divento una specie di guru, eccetera. Si tratta solo di circostanze. Niente che qualcun altro possa copiare o fare proprio come se fosse un modello di vita. Io stesso sono stato in parte sfortunato, e in parte fortunato”.

Nel tuo libro critichi a fondo le basi del web 2.0 e dell’apertura totale dei contenuti.

“Esatto. Il web 2.0 ha dato molto a molte persone, sia in termini di entusiasmo che in termini economici, ma la bolla speculativa cui è legato non durerà. Anzi, a mio avviso anche la crisi finanziaria di questi anni è profondamente legata al modello dei social media. Non è esattamente lo stesso, ma in fondo è molto, molto simile”.

In che senso?

“In entrambi i casi c’è stata gente che ha usato dei computer per trarre il massimo guadagno dal sistema, concentrando al massimo l’economia nelle mani di qualcuno. È solo una questione di scopi. Lo scopo di internet è di arricchire le persone o di dare loro maggior potere e maggiore informazione? Perché se si tratta solo di arricchirle… Be’, non funzionerà mai. Certo, è una tentazione molto forte, perché ti dà l’idea che ognuno avrà la sua parte. Ma non regge”.

E perché?

“È davanti ai nostri occhi: molte delle persone che riversano contenuti liberi sulla rete non ne traggono alcun guadagno! Pensa soltanto a cos’è successo alla musica. Invece di redistribuire il benessere — che dovrebbe essere l’idea base del web sociale — l’abbiamo concentrato di nuovo. Nel breve periodo è sembrata una rivoluzione, ma nel lungo periodo, molto semplicemente, la società smette di funzionare”.

Be’, in mezzo a tanti entusiasti dell’open-content e della digitalizzazione, sei una voce abbastanza isolata. Immagino ti abbiano dato del pessimista.

“In realtà non penso affatto di essere un pessimista. Tutt’altro. Il mio lavoro e il mio libro sono profondamente ottimisti e cercano di creare, di disegnare una via per un futuro diverso da quello che sembra attenderci. Quello che bisogna fare è mantenere sempre un atteggiamento molto, molto critico verso la realtà. Ma non scambiamo la critica con il pessimismo”.

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