L’arrivo di Wang

Con meno di 500.000 i Manetti Bros hanno prodotto un film di fantascienza che non ha nulla da invidiare alle produzioni americane. Ora che finalmente hanno costituito una società tutta loro, i Manetti possono finalmente sbizarrirsi nel cinema di genere, esplorando situazioni e possibilità che solitamente vengono snobbate dai produttori italiani, oggi come non mai poco inclini a sperimentare e, quindi, rischiare. Vi prego andatelo a vedere al cinema, sosteniamo il genere e sosteniamo la creatività dei Manetti Bros.

Mentre è alle prese con la traduzione di un film cinese da consegnare il giorno dopo, Gaia riceve per telefono un misterioso e urgente ingaggio profumatamente pagato. Dopo mezz’ora un’auto passa a prenderla a casa per condurla nel luogo in cui dovrà tradurre il dialogo tra Curti, l’agente che l’ha prelevata, e il fantomatico Mr. Wang. Prestare la sua professionalità le risulterà però difficile a causa della strana richiesta di lavorare al buio per non essere compromessa in una situazione della massima gravità. Solo dopo aver preteso e ottenuto di accendere la luce, la giovane interprete comprenderà il motivo di tanta segretezza.

Fedeli a quel cinema di genere frequentato sin dall’inizio della loro carriera, i Manetti Bros. si cimentano con la difficile via della fantascienza, confezionando una pellicola che pur entrando ampiamente nella categoria finisce con l’avere un’impostazione tanto curiosa da sconfinare nel dramma psicologico. Tra il breve incipit in cui la protagonista viene bendata e quel finale rivelatore per più motivi, si sviluppa, infatti, una storia basata sullo scontro tra discordi, inconciliabili visioni e sulla difficoltà di comprendere se stessi così come l’altro da sé. Con una caratterizzazione spesso esasperata, soprattutto nell’agente interpretato dal bravo Ennio Fantastichini, i tre personaggi in campo – più o meno stabili intorno al tavolo dell’interrogatorio – diventano presto simboli della volontà di comunicazione o della sua negazione assoluta, perdendo tuttavia la possibilità di diventare caratteri a tutto tondo, dotati quindi di profondità e spessore.

Nonostante sprizzi una certa vitalità e sia spesso divertente, il film soffre i limiti di un impianto a lungo andare troppo meccanico nell’uso ripetuto dei flashback e nel ricorso eccessivo a quell’umorismo nero ormai tipico dei due registi. Nella parte conclusiva, comunque, il ritmo ha una notevole impennata. Come in Zora la vampira, sotto l’aspetto ludico – orrorifico, si nascondeva il tema sociale legato all’immigrazione e all’emarginazione, qui si tocca quello etico riferibile alla diversità e al pregiudizio, a conferma di un cinema più solido di quanto si creda. Considerato il basso budget, davvero buona la resa fotografica della pellicola e più che accettabili gli effetti speciali.

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