Vizio di forma

Sul titolo, a volte, è bene soffermarsi (oltre che sulla locandina, quando inarrivabile come quella di Vizio di forma). Al di là della libera traduzione e semplificazione italiana, che poco o nulla significa – e che, curiosamente, sia nel libro di Thomas Pynchon che nel film tratto da esso, non trova spazio all’interno dell’opera – è il letterale “vizio intrinseco” la chiave del mistero. Che, come tale, include tanto il MacGuffin del termine tecnico del ramo assicurativo che la reale sostanza dell’opera di Pynchon e Anderson, dove “vizio intrinseco” sta per incapacità per un sistema di reggere l’instabilità centrifuga delle sue componenti interne. 
Due piani di lettura per una molteplicità psichedelica di interpretazioni degli stessi: l’Uno e il Tutto, in ordine sparso, come vuole il cinema di Paul Thomas Anderson da Ubriaco d’amore in poi, Magnoglia, Il petroliere, The Master. Il noir e la sua lunga discendenza di riferimenti riflessivi (Chandler via Altman, Kem Nunn via Pynchon, con aggiunta di Hunter Thompson e Dude Lebowski) diviene così avvincente esca per catturare l’interesse e aiutare a immedesimarsi tanto in Doc Sportello che nella sua nemesi Bigfoot Bjornsen, nascondendo così, attraverso un sottile e caliginoso fumo di cannabis, la parabola della seconda caduta dall’Eden, quando l’ebbrezza utopistica dei ’60 si è schiantata di fronte alla cruda realtà della natura umana ad Altamont e Bel Air. 
Gli Hell’s Angels omicidi e la setta satanista di Manson diventano in Vizio di forma un’unica entità e si contrappongono, con logica speculare, all’amore, che muove (più che il cielo e l’altre stelle) le onde dell’oceano e il girovagare erratico, ma lucido e con uno scopo preciso, del protagonista. Un insieme di caratteri paradigmatici fa di Doc Sportello creatura andersoniana più che pynchoniana, pecorella smarrita che si oppone con radicale indolenza al traumatico passaggio di consegne tra un’epoca e un’altra, tra l’erba e la polvere d’angelo, tra Neil Young (il brano scelto per la più romantica delle sequenze si intitola “Journey through the Past”) e il decennio dell’edonismo reaganiano che verrà, tra la pellicola che esibisce orgogliosamente la sua grana e il digitale che ci seppellirà. Mai come in Vizio di forma lo sconclusionato nonsense di una trama inafferrabile e involuta è mistificatore, come la retorica di un guru, rispetto alla geometrica precisione di un’opera che intensifica la separazione di Doc dal suo, o dai suoi, doppi.