Mad Max: Fury Road

Ricordo con estrema chiarezza l’impressione che lasciò su di me allora quindicenne la visione di Mad Max: Oltre la sfera del tuono, terzo film della saga, quello con Tina Turner che cantava We don’t need another hero. Molti scrissero che quello dei tre era il film più debole come trama ma complice un Mel Gibson allora in piena forma e gli effetti visivi notevoli per un’epoca non ancora invasa dalla CGI io uscii dalla sala colpito da questo mondo post apocalittico estremamente cyberpunk.

Fury Road cos’è? Un reboot?, un remake?
Il ritorno alla regia di George Miller, atteso quanto insperato prepara a una nuova saga con protagonista un magistrale Tom Hardy, attore inglese che io adoro, dal l’enorme talento e fisicità.
Come Ken il guerriero, per citare solo una delle innumerevoli visioni di medioevo prossimo venturo degli ultimi due decenni, che devono tutto all’intuizione milleriana, contestualizzata nell’ideale paesaggio intrinsecamente borderline del deserto australiano. Una società resettata, in cui benzina e cromature assumono sostanza quasi divina: un tema ripreso in Mad Max: Fury Road, con il coraggioso accostamento tra la mistica da kamikaze del terrorismo contemporaneo e un’estetica neo-ariana che inneggia al Valhalla, in una crasi impossibile tra filosofie opposte di un’ideale crociata. Miller intende riprendersi ciò che è suo e rilanciarlo nel linguaggio della contemporaneità, avvalendosi del 3D, ricorrendo probabilmente a una velocizzazione dei frame per secondo (a tratti eccessiva), ma Mad Max: Fury Road è molto più di questo. A partire dal lavoro compiuto su eroi e antieroi: il Max di Tom Hardy, perseguitato dagli incubi di una vita precedente e quasi balbuziente nella sua timida incapacità di interagire con gli altri, è lontano dal vendicatore senza nome di Mel Gibson. In realtà il Mad Max dei nostri anni è quasi oscurato da una donna, la Furiosa di Charlize Theron, grande parte la sua, ottimamente interpretata.