A pranzo con Orson

A pranzo con Orson Welles di Henry Jaglom, Adelphi

Nel tentativo di esplorare meglio la l’imponente figura di Orson Welles ho letto questo gustosissimo libro pieno zeppo di aneddoti e dichiarazioni di guerra come quella su Woody Allen: “Mi ripugna fisicamente. Detesto gli uomini fatti in quel modo. Quella combinazione unica di arroganza e insicurezza mi dà l’orticaria. È arrogante all’ennesima potenza, come tutti gli insicuri. Quelli che in compagnia si raggrinziscono e parlano piano sono incredibilmente arroganti. Fa il timido, ma non lo è“.

Ero dispiaciuto di non aver trovato Io, Orson Welles libro intervista di Peter Bogdanovich (regista di Paper Moon che fu amico personale di Welles) ma questo A pranzo con Orson è grandioso. La mia intenzione adesso è di leggere  il libro di Paolo Mereghetti Orson Welles. Introduzione a un maestro (Rizzoli) e vedere il documentario Il mago. L’incredibile vita di Orson Welles.

«A me non piacciono, i film. Mi piace farli». Una delle battute più celebri di Orson Welles sembrerebbe un paradosso, se si considera che di film propriamente intesi questo puro genio ne ha girato uno solo, a 24 anni, nel 1939, e che da quel momento fino alla sua morte i film li ha più che altro raccontati, immaginati, cominciati, interrotti, perduti, ritrovati – o se li è fatti massacrare. Ma per chi conosce bene la sua storia il paradosso è un altro, e cioè che proprio quella specie di fantasticheria permanente in 35 millimetri, che Welles sottoponeva a chiunque avesse voglia di ascoltarlo, ha finito nell’immaginario di tutti per diventare il cinema – una sostanza quasi alchemica che i film in sala contengono spesso solo in tracce. Per tutti gli altri, che magari di Welles conoscono solo l’immagine, o il frammento di una delle innumerevoli leggende da lui stesso messe in circolo, queste conversazioni settimanali con Harry Jaglom a un tavolo del Ma Maison di Los Angeles costituiscono la migliore introduzione possibile a una biografia per definizione più grande del vero, raccontata quasi dalla stessa voce che aveva tanti anni prima reso celebre, alla radio, il suo protagonista. Dove gli episodi verosimilmente fittizi, come l’affaircon Norma Jean Baker prima che diventasse Marilyn, le battute probabilmente ritoccate («Io e lei siamo i due più grandi attori d’America» Welles sostiene gli dicesse Roosevelt a ogni incontro) e i giudizi che invece suonano piuttosto sentiti (Marlon Brando? «un salsiccione») sono altrettanti trucchi dell’illusionista Welles per condurre il lettore al centro della più fascinosa macchina da intrattenimento di sempre, e fargliela vedere da vicino, come fosse la prima volta.